La conclusione del processo e il dissequestro dei reperti archeologici dopo dieci anni dai fatti

BASTIA UMBRA – Dieci anni per stabilire che quel capitello, frutto della spoliazione di qualche tempio antico, e quel coperchio di sarcofago, sempre riferibile alla tarda romanità, non erano oggetto di furto e l’antiquario non aveva commesso il reato di ricettazione. La Guardia di finanza aveva compiuto una verifica fiscale nei confronti di un orafo di Arezzo. Nel corso dei controlli i militari si erano accorti che nel laboratorio erano presenti dei reperti archeolgici. E avevano controllato i titoli per il possesso. Le carte erano in regola, ma le Fiamme gialle avevano pensato di estendere i controlli a chi aveva venduto quei pezzi d’arte. Così erano andati a bussare alla porta del negozio dell’antiquario di Bastia Umbra, difeso dall’avvocato Michele Titoli, e avevano verificato ogni singolo pezzo custodito e una montagna di ricevute e documenti di compravendita. Alla fine era risultato quasi tutto a posto, tranne quei due pezzi. Anche perché non capita di imbattersi in reperti che risalgono alla storia di Roma. La legge a tutela dei beni archeologici fissa un limite temporale al di sotto del quale non serve nulla per giustificare il possesso dei reperti (tipo era del bisnonno e trovato prima del 1911). Oltre quel limite temporale bisogna dimostrare, carte alla mano, dove è stato acquistato, chi era il proprietario e quante compravendite si sono susseguite. Secondo la Guardia di finanza tutto questo non era dimostrato e nessun documento comprovava il possesso legale dei reperti archeologici. Da qui la denuncia per ricettazione dei beni e conseguente sequestro degli stessi. Nel corso dell’udienza di ieri davanti al giudice Nicla Restivo, la difesa dell’antiquario ha prodotto i documenti che attestavano, quanto meno, l’acquisto in maniera corretta dei reperti e ne giustificavano il possesso; chiedendo, quindi, l’assoluzione. Il reato, inoltre, sarebbe andato prescritto a novembre. Il pubblico ministero, invece, aveva chiesto una condanna a due anni e una multa di 1.200 euro. Il giudice ha assolto l’imputato e disposto il dissequestro dei reperti archeologici.

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